L’invalidazione emotiva è uno dei fattori alla base della disregolazione emotiva e gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo. Nella crescita di numerosi mammiferi, tra cui anche l’uomo, la comunicazione delle emozioni è l’elemento fondante della relazione con la figura d’attaccamento. E’ con le emozioni che il piccolo comunica alla madre (o a chi per lei) il suo stato interno in risposta a determinati stimoli e anzitutto al comportamento dell’altro.

Ad esempio: una bambina torna da scuola. Un suo compagno gli ha tolto con violenza un giocattolo. La bambina ha pianto, è ferita e frustrata e cerca di comunicare, tramite il linguaggio verbale e non verbale, la sua esperienza alla madre.

Ora, nell’invalidazione si comunica in risposta alle emozioni dell’altro, che queste emozioni non hanno valore oppure sono del tutto inadeguate. Di conseguenza esse vanno inibite, non vanno comunicate e devono essere sostituite con altre emozioni. L’emozione comunicata non viene riconosciuta.

Esempio di prima: la madre risponde con un volto corrucciato, esprimendo un disprezzo rabbioso. Poi dice: E hai fatto male a piangere, vedi di darti una svegliata! La prossima volta rispondili a tono e fatti rispettare. In questo caso non solo l’emozione negativa non è stata accolta ma si è anche innestato nella bambina un senso di vergogna per la sua presunta incapacità nel tenere testa al suo compagno.

I motivi per cui un genitore invalida le emozioni del bambino sono diversi, ma spesso è perché è stato egli stesso invalidato da piccolo e l’espressione di emozioni di vulnerabilità innesca in lui un vissuto di frustrazione e poi di ostilità verso chi si dimostra bisognoso di supporto invece di favorire la cooperazione o l’accudimento. A questo punto può accadere che il bambino amplifichi la comunicazione dell’emozione, attuando comportamenti più intensi. Questo, a sua volta, amplifica la risposta dell’adulto, creando un circolo vizioso in cui entrambe le parti mettono in atto, per motivi diversi, comportamenti sempre più estremi. Alla fine una delle due parti, svilita e senza più risorse, si arrende alle richieste dell’altro senza però averne realmente compreso il bisogno. Questo non risolve il problema ed è altamente probabile che questo circuito possa ripresentarsi in futuro, rinforzando continuamente questo tipo di comportamenti che diventano col tempo la base stessa della relazione.

Tornando ancora una volta all’esempio precedente: la bambina urla furiosa contro la madre, si butta sul tavolo e si dispera. Anche la madre alza la voce perché pensa che la figlia sia stata molto maleducata. Decide di punirla e la bambina, sentendosi impotente, accetta per il momento di non comportarsi più in quel modo. Tuttavia, quando si sente di nuovo frustrata a scuola, a casa la bambina rimette in atto comportamenti ancora più distruttivi e provocatori per ottenere attenzioni. Ora a sentirsi impotente e frustrata è anche la madre.

Come si può intuire facilmente, nel tempo questo circuito favorisce la disregolazione emotiva nel bambino come anche nelle figure accudenti. Ora il bambino ha perso fiducia nel poter comunicare l’emozione e nel poterla gestire in autonomia. Probabilmente nemmeno si fida più di ciò che prova o lo ritiene sbagliato, sentendosi di conseguenza indegno o incapace. Continua a mettere in atto comportamenti estremi cercando una risposta alla sua sofferenza che non arriva mai oppure “spegne” le sue emozioni, disconoscendole e sentendosi inadeguato solo per il fatto di averle provate o “cattivo” perché creano problemi alle persone che gli sono vicine. In entrambi i casi l’attivazione emotiva resta e non si è più capaci di gestirla. Gli effetti di questo stile genitoriale sono particolarmente negativi soprattutto in quei casi in cui il bambino presenta già una vulnerabilità emotiva di base, ovvero quando è già di per sé bassa la soglia di attivazione emotiva mentre è invece molto alta l’attivazione fisiologica associata all’emozione.

Crescendo, il soggetto invalidato manca quindi di tutto quell’insieme di abilità di alto livello, ovvero abilità adulte e mature, per tollerare la sofferenza e ridurre le emozioni dolorose quando queste si manifestano. Il nucleo di molti Disturbi di Personalità, in primis di quello Borderline, è proprio questo. D’altro canto, il fatto di avere dentro di sé parti indegne, negative e che danneggiano l’altro si associa spesso ad una scarsa integrazione del Sé, con un disprezzo verso le proprie parti vulnerabili e con una incapacità a fidarsi degli altri, nell’implicita convinzione di essere sempre rifiutati per ciò che si prova e per ciò che si è. A causa del fatto che le esperienze di sviluppo non vengono integrate proprio perché non si crea nel bambino la capacità di osservare i propri stati interni, la persona adulta continuerà a mettere inconsapevolmente in atto comportamenti di autosabotaggio e/o disfunzionali verso l’altro, che risponderà spesso allontanandosi, confermando i vissuti di indegnità e di non poter essere aiutato.

Torniamo, un’ultima volta, all’esempio iniziale. La bambina ora è una giovane ragazza di vent’anni. Si è iscritta ad un corso universitario che ama molto ma ha sempre avuto difficoltà ad interagire con i suoi coetanei. Davanti a piccole provocazioni o critiche prova intense emozioni di paura mista a rabbia. Prova anche un forte senso di abbandono ed è convinta che tutti gli uomini prima o poi la lasceranno perché lei è una piantagrane. Tempo fa aveva trovato un uomo che la trattava con ogni riguardo e che diceva di amarla molto. Davanti a queste esternazioni, lei si sentiva presa in gira, si infuriava oppure lo ridicolizzava, definendolo uno stupido e un bambino. Alla fine, sentendosi come imprigionata dalla relazione, lo ha tradito in maniera plateale ma quando lui l’ha lasciata, lei, dopo una iniziale sensazione di sollievo, si è sentita sommersa da vissuti di vergogna, pensando “che è la solita putt**a” e per sentirsi meglio ha iniziato a fare uso di sostanze oppure ha tentato di “gestire” il suo corpo con comportamenti sessuali promiscui o gesti autolesionistici. Arriva a tentare il suicidio e, disperata, chiede aiuto ad una sua amica che la convince ad iniziare una psicoterapia.

Nell’esempio che abbiamo fatto, la persona in questione, per una complessa serie di fattori tra cui un ambiente familiare invalidante, ha iniziato a sviluppare una serie di comportamenti altamente disfunzionali, arrivando a soddisfare la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità. Si può intuire, avendo seguito questa storia, la complessità enorme che si cela dietro un’etichetta diagnostica e quanto sia limitante usarla per inquadrare una persona e la sua vita. Spesso la persona arriva all’attenzione del terapeuta perché mette in atto comportamenti lesivi di sé stessa o degli altri. Molte volte il suo obiettivo è eliminare le conseguenze dei suoi comportamenti disfunzionali mentre, al contrario, sviluppare consapevolezza e nuove strategie è l’essenza di una buon percorso terapeutico.

E’ quindi evidente quanto la relazione sia cruciale per la terapia e quanto il terapeuta debba avere con il paziente un atteggiamento aperto, non giudicante e riconosca/rispetti incondizionatamente il valore delle emozioni della persona. Quelle emozioni hanno valore in quanto esistono e anche se fanno soffrire fanno parte della persona e vanno integrate nel Sé, invece di inibirle o scaricarle con comportamenti che non aiutano. La persona soffre o è arrabbiata e il terapeuta deve anzitutto permettergli di esserlo, di osservare quelle emozioni e di accettarle, vedendone lucidamente le conseguenze del non saperle modulare. Solo dopo si possono mettere in atto strategie che possano regolarle con efficacia, altrimenti si corre il rischio che tali strategie diventino solo l’ennesimo strumento per reprimere un vissuto, e che quindi siano, se non dannose, quantomeno inefficaci.