L’importanza del corpo nel cambiamento

– “Fatevi coraggio! Per guarire da questo mortale dolore, serviamoci come medicina, della nostra grande vendetta… Ragionate la cosa da uomo!”.

– “Sì, ma io devo anche sentirla da uomo!”

(William Shakesperare. Macbeth Atto IV, scena III)

Dottore, dottore io ci provo a mettere in discussione le mie convinzioni ma non cambia nulla! Perché? Questa domanda è sempre più frequente negli studi di psicoterapia ed ogni professionista prima o poi l’avrà sentita almeno una volta. Così come, prima o poi, ognuno di noi ha provato a cambiare modo di pensare ma nulla, non si cava il ragno dal buco. Perché?

La risposta ad una domanda complessa non può che essere complessa. Ciò che però mi preme sottolineare è che noi non siamo solo la nostra mente ma siamo anche altre due cose: i nostri comportamenti (quindi ciò che facciamo, in primis le nostre abitudini) e soprattutto il nostro corpo, ciò che sentiamo. Proprio lui, questo sconosciuto involucro, questo guscio che spesso è così fragile e vulnerabile e che cede quando non vorremmo. E per corpo non si intende unicamente il soma in senso classico, ovvero braccia, gambe, volto e (udite udite !!) pancia. Qui parliamo anche del cuore che batte all’impazzata quando siamo tesi, dello stomaco che si chiude e si rivolta quando riceviamo una delusione o una critica aspra, del dolore che ci sale dal basso e ci blocca la gola in un lutto. In altre parole il nostro corpo è il palcoscenico, il teatro e tutta la baracca dove gli attori principali della nostra anima (rabbia, odio, ansia, compassione, sofferenza e compagnia bella) si muovono e si districano, scannandosi tra loro per prendersi l’attenzione del pubblico, la nostra attenzione. E come è mai possibile cambiare modo di pensare e poi di comportarsi se non capiamo prima come cambiare modo di sentire? Che facciamo, smettiamo di credere di essere dei falliti quando abbiamo il capogiro e balbettiamo col nostro capo? Smettiamo di credere che ci sia un pericolo quando ci tremano le gambe e abbiamo il cuore in gola? Ci diciamo che non è razionale arrabbiarsi quando abbiamo i pugni serrati e digrigniamo i denti pronti ad azzannare il nostro avversario? “Eh, lei la fa facile dottore, vorrei vederla al suo posto!!” ci verrebbe da protestare col nostro terapeuta. E avremmo ragione da vendere. Quando ci troviamo in uno stato simile il buon senso sembrerebbe invece suggerirci: “Un momento. Calma, facciamo un bel respiro profondo, prima di tutto”. Non sarà una soluzione definitiva, ma spesso aiuta.

Non è un caso se negli ultimi decenni la psicologia e la psicoterapia stanno testando nuovi strumenti e tecniche terapeutiche per intervenire sempre di più sull’attivazione somatica del paziente. Sono le cosiddette tecniche bottom-up, un insieme di procedure che si affiancano al classico colloquio clinico e permettono potenziare l’efficacia della psicoterapia. È infatti evidente, specialmente nelle forme di sofferenza più complesse, che l’incapacità di gestire le nostre emozioni, detta disregolazione emotiva, ci mette seriamente in crisi e manda letteralmente in fumo tutti i sani e saggi salamelecchi che ci siamo scambiati la settimana prima col terapeuta. E dinanzi ad attivazioni somatiche imponenti non ci sentiamo affatto spinti a ragionare con calma e lucidità. Perché? Semplicissimo. Perché le nostre emozioni sono fatte in questo modo. Se sono in una situazione di pericolo la mia mente è stata progettata non per stare lì a valutare pro e contro di una eventuale scelta. “Ma sei scemo?” ci urla il nostro cervello e quindi il nostro corpo “dattela a gambe” oppure “rispondigli a tono a questo”. Le emozioni si manifestano anzitutto nel corpo ed hanno una funzione essenziale: mettere in atto un comportamento in risposta ad uno stimolo. E non importa se in realtà il pericolo è cessato e il nostro terapeuta ci dice che la nostra è solo una fobia. L’attivazione somatica e l’angoscia rimangono più o meno le stesse. “E quindi, dottore?” Altra domanda che a volte mette in crisi mesi di terapia. E quindi cambiare modo di pensare non basta più. A volte non solo non funziona ma è addirittura controproducente perché è come se ci togliesse quella spinta che ci permette di risolvere un problema e ci sentiamo nudi e crudi o addirittura cominciamo a diventare critici e giudicanti verso ciò che pensiamo. “Basta, smettila di preoccuparti!! Il dottore ti ha già detto che non c’è nessun pericolo ed è tutto nella tua testa”. Ora non ci sentiamo solo spaventati ma anche impotenti e stupidi perché non riusciamo a calmarci cambiando idea. Ed ecco, la frittata è fatta e servita.

Per fortuna ci sono molti modi di lavorare con i pazienti sul proprio corpo e di sviluppare col tempo, la pazienza e l’esercizio una serie di esercizi che prima lavorano sul corpo e sulla regolazione e sull’accettazione della sofferenza emotiva. Sono semplici indicazioni che proprio per la loro semplicità sono molto efficaci e che, personalmente, io utilizzo spesso nel mio lavoro. Il problema è qui è ora, nel corpo. La risposta è nel corpo. E solo dopo essersi stabilizzati, aver focalizzato la nostra attenzione sul corpo che batte all’impazzata, aver sentito le nostre gambe robuste e i nostri piedi ben piantati a terra, aver riequilibrato una respirazione addominale più profonda che il cortisolo si abbassa, l’adrenalina in circolo cala e la parte più recente del nostro cervello è sufficientemente “calma” per aiutarci a vedere la nostra rabbia, la nostra angoscia il nostro dolore, accettarlo ed evitare di amplificarlo con mille giudizi ed ipotesi catastrofiche. Dopo che si è calmato il corpo e non prima. Prima c’è troppa “energia” in circolo. È un po’ come voler partire con una corsa massacrante senza prima aver fatto un po’ di riscaldamento. È troppo presto, vi fate solo male. Prima il riscaldamento, poi correte. E, proseguendo con la metafora sportiva, come in ogni esercizio non funzionerà subito. Non si fanno subito 20 km di maratona se fino a ieri andavo avanti a serie tv e poc corn. Allo stesso modo non si diventa stoici e ben controllati se fino a ieri avevamo sensazioni di intenso panico ogni volta che il capo ci convocava nel suo studio. Ma se invece di dirci “non pensare in maniera così catastrofica, tanto non serve” proviamo a portare l’attenzione sul corpo, vediamo quello che ci succede e agiamo attivamente su di esso. La paura salirà, ci attraverserà e poi passerà come un’onda marina. Siamo fatti anche così per fortuna. Siamo fatti per spaventarci ma anche fatti in modo che la paura passi perché, prima o poi, anche i pericoli passano, come ci ha sempre detto il nostro benedetto terapeuta nel colloquio. Solo che stavolta credere alle sue parole sarà molto più facile.