Si definisce disregolazione emotiva l’incapacità, malgrado gli sforzi, di modulare o ricondurre entro la norma i proprio vissuti emotivi, le proprie esperienze interne e il proprio comportamento verbale e non verbale in risposta a degli stimoli. Questa difficoltà spesso si associa ad impulsività marcata e a problemi di adattamento della persona nel suo contesto relazionale, vista l’incapacità di controllare risposte intense e, talvolta, estreme. Spesso tra le difficoltà associate a disregolazione emotiva troviamo anche difficoltà di attenzione e pianificazione (riconducibili a deficit dell’esecutivo centrale), difficoltà nell’organizzare la propria quotidianità, tendenza all’isolamento come disperato tentativo di arginare la sofferenza, richieste di aiuto espresse in maniera inadeguata, etc. A peggiorare la situazione vi è anche il feedback proveniente dall’altro, che, spesso, incapace di gestire comportamenti così intensi e spesso anche spaventato dalla non gestibilità della sofferenza che vede, si tira indietro, vittimizza o stigmatizza chi ha difficoltà di regolazione.

Vediamo, più nel dettaglio, ciò che accade, fornendo degli esempi concreti e facilmente immaginabili:

  1. Si parte già da una soglia di attivazione molto bassa, con alta sensibilità a stimoli emotivi che fanno da innesco. Es: il mio ragazzo mi dice che farà tardi oggi. Uno stimolo simile può essere poco rilevante o generare emozioni meno intense in persone che non presentano disregolazione emotiva. Sul perché una persona sia già predisposta a reagire in questo ci sono numerose ipotesi, ma la spiegazione più completa è quella che unisce fattori di vulnerabilità biologiche allo sviluppo in un ambiente di cura invalidante, che amplifica l’attivazione emotiva e con figure di attaccamento inadeguate che presentano esse stesse difficoltà a regolare le emozioni. Queste esperienze, specie se precoci, possono influenzare lo sviluppo funzionale del cervello e risultano del tutto ingestibili per il bambino, aumentandone il senso di impotenza. Ne emerge un quadro complesso in cui è difficile trovare una causa univoca e determinante quanto invece un’interazione di numerosi elementi interdipendenti e che si rinforzano tra loro.
  2. Reazioni particolarmente intense allo stimolo emotivo. La persona non parte solo “svantaggiata”, ma esperisce anche fortissima attivazione somatica (le emozioni sono invariabilmente legate al corpo), che se non modulata da strumenti psicologici che si apprendono normalmente nell’arco dello sviluppo, diventano intollerabili e quindi ingestibili. Es: intensa ansia, sentimenti abbandonici, rabbia estrema, vissuti di indegnità in risposta al fatto che il mio ragazzo farà tardi.
  3. Difficoltà nel ritornare allo stato di partenza dopo l’attivazione. Le emozioni, oltre ad essere particolarmente intense, tendono a mantenersi e ci vuole più tempo per ristabilire uno stato di maggiore tranquillità e minore reattività somatica. Possono innescarsi anche cicli interpersonali distruttivi con l’altro, che spesso non fanno che peggiorare la situazione, amplificando ancora di più le emozioni, la disregolazione e quindi la sofferenza. In altri casi ci si può affidare a strategie disfunzionali per reprimere la sofferenza, come l’uso di sostanze o l’autolesionismo, che dando un sollievo momentaneo possono essere rinforzate nel tempo. Per molto tempo la persona si può inoltre portare dietro strascichi di quell’emozione, rimanendo quindi vulnerabile a successivi episodi di disregolazione anche a distanza di molto tempo. In questo modo si riduce la soglia di attivazione, già di per sé bassa, mantenendo così un circolo vizioso.

Al contrario della disregolazione, la regolazione emotiva consiste in una serie di abilità, anche in tal caso connesse alla storia di sviluppo come a fattori biologici, di modulazione delle proprie emozioni. Queste includono l’abilità di inibire impulsi e comportamenti dannosi per sé stesso e per la relazione con l’altro, dirigere il proprio comportamento con lucidità verso un obiettivo sano e soprattutto calmare l’attivazione fisiologica. Queste capacità si possono sviluppare. Con l’esercizio e l’impegno, una persona potrà mantenere un controllo via via più automatico sulle emozioni, pur mantenendo una maggiore vulnerabilità di base.

A oggi, ci sono numerosi modelli di terapia che cercano di inquadrare e di intervenire sulla disregolazione emotiva (es. Terapia Dialettico Comportamentale, Terapia Metacognitiva interpersonale, Trattamento basato sulla mentalizzazione, etc). Tendenzialmente tutti questi interventi, sebbene con strumenti diversi, cercano di sviluppare la capacità metacognitiva ovvero aumentano la capacità di rappresentarsi e osservare i propri contenuti mentali e quelli dell’altro e dopo cercare di modificarli e gestirli. In altre parole una delle difficoltà principali delle persone con disregolazione emotiva è che, probabilmente per il fallimento del rispecchiamento delle figure genitoriali e le continua invalidazioni nello sviluppo, non mettono “la mente in mezzo” tra stimolo, emozione e comportamento, avendo difficoltà a identificare i propri stati interni e quindi a validarli e a gestirli, ad esempio decentrandosi da essi. Ne consegue che il soggetto si sente letteralmente in balia di emozioni molto intense e che non riesce a gestire, spesso intollerabili, che hanno un effetto disorganizzante sul comportamento e sulle relazioni. La terapia cerca di intervenire attraverso due strumenti fondamentali: una relazioni di cooperazione in cui il paziente si senta accettato in modo incondizionato e in cui possa fermarsi a descrivere le emozioni che prova in un contesto sicuro, ovvero senza il rischio di essere invalidato per i suoi vissuti, che invece vengono accolti favorendo la lucidità della persona e la sua capacità di integrazione. Le emozioni non sono più un corpo estraneo, un maremoto da cui scappare o difendersi, ma un elemento integrante della propria vita mentale che, come tale, va accettato e osservato con curiosità e rispetto. A questo, che è base e cornice senza la quale risulta inefficace ogni intervento, si unisce lo skills training, ovvero lo sviluppo di una serie di strategie cognitivo-comportamentali collaudate e specifiche per il problema che porta il paziente, che possano potenziare concretamente le abilità per tollerare la sofferenza e relazionarsi agli altri con maggiore efficacia, lavorando su tutti quelli schemi e cicli interpersonali che aumentano la sofferenza.