Ogni relazione si costruisce su un elemento fondante: la condivisione. Che si tratti di interessi, di emozioni o di obiettivi se non c’è la condivisione una relazione non decolla e la relazione tra terapeuta e paziente non fa assolutamente eccezione. In una terapia ci sono tre elementi essenziali alla base della costruzione di una salda alleanza con il paziente: condivisione degli obiettivi, condivisione dei compiti e condivisione di un legame. Ma un terapeuta è disposto a condividere emozioni con il paziente? E perché mai dovrebbe se non è lui il paziente?

La risposta è una sola: sì. Uno psicoterapeuta DEVE essere disponibile a condividere emozioni con un paziente. Perché? Perché se questo non si verifica allora, semplicemente, la relazione non è salda c’è un evidente problema di fiducia e la terapia non funziona. La metafora umoristica del terapeuta che chiede al paziente: “Bene, ora mi parli dei suoi problemi”, indossando però un’armatura, è quanto mai efficace. E perché mai il paziente dovrebbe aprirsi con qualcuno che dimostra di non fidarsi di lui e forse nemmeno di sé stesso? Uno psicoterapeuta efficace è prima di tutto uno psicoterapeuta consapevole. Cioè uno psicoterapeuta che, dinanzi ad emozioni intense, reazioni scomposte o critiche sprezzanti da parte della persona che ha di fronte, non si chiude a riccio ma riesca invece a farsi investire dalla tempesta di fuoco senza restarne bruciato. E’ necessario, infatti, che il professionista abbia sviluppato tramite l’esperienza e un continuo percorso di terapia personale personale in cui si è messo in gioco quella che si definisce autodisciplina, un valore essenziale che occorre incarnare durante una seduta se si vuole essere credibili con il paziente. L’autodisciplina è una competenza umana, prima che tecnica, estremamente complessa e che richiede molta fatica per essere completamente maneggiata. Essa consiste, in breve, nella capacità di mantenere una lucidità in circostanze difficili, usando una mente “saggia” disposta ad osservare le emozioni più cupe e spaventanti, accoglierle con benevolenza verso sé stessi e lasciare che passino. Ogni dolore, per quanto intenso, prima o poi cessa così come è iniziato. Se non cessa è perché siamo noi che lo stiamo amplificando, trasformandolo in sofferenza. Siamo noi che lo abbiamo nutrito e abbiamo trasformato un cucciolo addestrabile in una enorme tigre furiosa.

Una mente saggia e una buona autodisciplina sono quindi due valori fondanti del lavoro di uno psicoterapeuta. Se le emozioni che manifestiamo non vengono accolte e sono invece rispedite al mittente con risentimento, atteggiamenti indispettiti etc. allora si crea una barriera invisibile, una cortina gelida e pesante che, specialmente se non c’è una riparazione della relazione, si insinua dietro ogni parola che pronunceremo in seduta. Possiamo anche andare avanti con quel terapeuta ma la fiducia che avevamo nell’altro è stata scalfita e, avendo paura di peggiorare le cose, magari non diremo più nulla ma ormai ce la siamo segnata. In tal caso il terapeuta non ha condiviso la nostra emozione ma ne è stato solo contagiato ed si è difeso da quelle emozioni senza accoglierle che è esattamente quello che già fa il paziente!!!. L’idea che invece la persona dinanzi a noi ci assomigli, soffra e patisca come noi ma si comporti anche in modo diverso, ci conforta perché ci assicura che è un nostro simile, avendo dentro di sé fragilità e fermezza, sofferenza ma anche risorse, problemi ma anche soluzioni. Quindi dentro di noi non c’è nulla di profondamente sbagliato. Quindi soffrire cessa di essere motivo di vergogna. Solo se un terapeuta incarna questa competenza può essere capace di trasmetterla al paziente. Solo se è credibile e dimostra di poter gestire le sue emozioni allora può essere abbastanza stabile da poter affiancare un’altra persona nella gestione delle sue. Chi andrebbe mai da un architetto che ha costruito la sua casa sulle sabbie mobili?

Per quanto possa essere forte il contenuto portato in seduta, se il terapeuta non arretra ma mantiene una posizione accogliente e non spaventata, dimostra che quella tigre si può domare. Che è possibile mantenersi saldi durante la tempesta. Poiché questa competenza viene dimostrata con i fatti e condivisa in una relazione è possibile trasmetterla.

Pensiamo, per fare un esempio, ad un bambino che torna a casa spaventato (lascio immaginare al lettore il perché). Se si trova davanti un genitore che di fronte alla paura che gli viene comunicata, si spaventa a sua volta e non riesce a gestire le sue emozioni quello che succede è che, semplicemente, il bambino si spaventerà ancora di più perché quella sua emozione è stata appena amplificata da chi doveva aiutarlo a gestirla. Con tutta probabilità, quel bambino non comunicherà più quell’emozione ricordando che se lo fa poi spaventerà l’altro e di conseguenza la sua emozione diventerà ancora più intensa. Peccato che le emozioni, quando non comunicate, tendono inevitabilmente a diventare ancora più ingestibili, mettendo la persona in un vicolo cieco. La soluzione per uscire da questa impasse è proprio la condivisione e quindi l’avere dinanzi una mente saggia che ci comunichi: “Ecco. Hai paura e stai male. Mi comunichi questa tua paura e io la sento. Ma riesco a gestirla, a capire che è la tua e quindi a non spaventarmi. Ti comunico questo e lo condivido con te, facendoti vedere e insegnandoti come la paura si possa provare senza esserne travolti.”.

E solo dopo tutto questo è possibile iniziare a lavorare su cosa ha generato quella paura. Ma forse, a quel punto, la paura nemmeno ci sarà più.